Risultati della ricerca


#immagini: 54

Grotta Is Janas

Queste cavità naturali sono tra le più grandi e belle della Sardegna: il loro ingresso rettangolare è immerso in una rigogliosa foresta di lecci. Le grotte, facilmente visitabili, secondo l’antica leggenda sono state la dimora di tre janas (le fate) che vennero pietrificate da Dio per aver ucciso un frate. Le pareti della grotta sono ricoperte da colate e drappeggi marmorei. Dal soffitto sembra quasi che sul visitatore incomba una tempesta di stalattiti bianche.

Grotta Is Janas

Queste cavità naturali sono tra le più grandi e belle della Sardegna: il loro ingresso rettangolare è immerso in una rigogliosa foresta di lecci. Le grotte, facilmente visitabili, secondo l’antica leggenda sono state la dimora di tre janas (le fate) che vennero pietrificate da Dio per aver ucciso un frate. Le pareti della grotta sono ricoperte da colate e drappeggi marmorei. Dal soffitto sembra quasi che sul visitatore incomba una tempesta di stalattiti bianche.

Grotta Is Janas

Queste cavità naturali sono tra le più grandi e belle della Sardegna: il loro ingresso rettangolare è immerso in una rigogliosa foresta di lecci. Le grotte, facilmente visitabili, secondo l’antica leggenda sono state la dimora di tre janas (le fate) che vennero pietrificate da Dio per aver ucciso un frate. Le pareti della grotta sono ricoperte da colate e drappeggi marmorei. Dal soffitto sembra quasi che sul visitatore incomba una tempesta di stalattiti bianche.

Grotta Is Janas

Queste cavità naturali sono tra le più grandi e belle della Sardegna: il loro ingresso rettangolare è immerso in una rigogliosa foresta di lecci. Le grotte, facilmente visitabili, secondo l’antica leggenda sono state la dimora di tre janas (le fate) che vennero pietrificate da Dio per aver ucciso un frate. Le pareti della grotta sono ricoperte da colate e drappeggi marmorei. Dal soffitto sembra quasi che sul visitatore incomba una tempesta di stalattiti bianche.

Grotta Is Janas

Queste cavità naturali sono tra le più grandi e belle della Sardegna: il loro ingresso rettangolare è immerso in una rigogliosa foresta di lecci. Le grotte, facilmente visitabili, secondo l’antica leggenda sono state la dimora di tre janas (le fate) che vennero pietrificate da Dio per aver ucciso un frate. Le pareti della grotta sono ricoperte da colate e drappeggi marmorei. Dal soffitto sembra quasi che sul visitatore incomba una tempesta di stalattiti bianche.

Grotta Is Janas

Queste cavità naturali sono tra le più grandi e belle della Sardegna: il loro ingresso rettangolare è immerso in una rigogliosa foresta di lecci. Le grotte, facilmente visitabili, secondo l’antica leggenda sono state la dimora di tre janas (le fate) che vennero pietrificate da Dio per aver ucciso un frate. Le pareti della grotta sono ricoperte da colate e drappeggi marmorei. Dal soffitto sembra quasi che sul visitatore incomba una tempesta di stalattiti bianche.

Grotta Is Janas

Queste cavità naturali sono tra le più grandi e belle della Sardegna: il loro ingresso rettangolare è immerso in una rigogliosa foresta di lecci. Le grotte, facilmente visitabili, secondo l’antica leggenda sono state la dimora di tre janas (le fate) che vennero pietrificate da Dio per aver ucciso un frate. Le pareti della grotta sono ricoperte da colate e drappeggi marmorei. Dal soffitto sembra quasi che sul visitatore incomba una tempesta di stalattiti bianche.

Grotta Is Janas

Queste cavità naturali sono tra le più grandi e belle della Sardegna: il loro ingresso rettangolare è immerso in una rigogliosa foresta di lecci. Le grotte, facilmente visitabili, secondo l’antica leggenda sono state la dimora di tre janas (le fate) che vennero pietrificate da Dio per aver ucciso un frate. Le pareti della grotta sono ricoperte da colate e drappeggi marmorei. Dal soffitto sembra quasi che sul visitatore incomba una tempesta di stalattiti bianche.

L’Isola che non c’è – 3

di Giorgio Valdès
Ripropongo alcune vecchie considerazioni sul mito di Fetonte (Ovidio “Le Metamorfosi”), rammentando comunque, e per l’ennesima volta, quanto affermato dal celebre archeologo belga naturalizzato italiano Louis Godart: “le vecchie leggende affondano le loro radici nella Storia ed è certo che alla base di qualunque mito narrato dagli Antichi vi è una verità storica che la critica moderna deve tentare di ritrovare e di spiegare ”.
In un post che conto di presentare a breve su questa pagina, vedrò di spiegare più dettagliatamente perché ho voluto richiamare in sintesi questo avvenimento mitologico, la cui traduzione completa riporto nel link http://www.miti3000.it/mito/biblio/ovidio/metamorfosi/secondo.htm consigliandone la lettura, poiché
le descrizioni apparentemente fantasiose di Ovidio potrebbero ragionevolmente celare fatti reali di cui, come detto, conto di riferire prossimamente.
Fetonte, figlio del dio solare Helios, un giorno ottenne dal padre il permesso di guidare i “cavalli del sole” lungo la volta celeste.
Tuttavia ne perse il controllo ed essi, imbizzarriti e galoppando all’impazzata combinarono un disastro epocale, incendiando e facendo tremare le terre che si affacciavano sul Mediterraneo, prosciugando l’acqua dei fiumi, spegnendo le foci del Nilo e facendo ritrarre i mari.
Al che Zeus, furibondo, lo abbatté con un fulmine. Cosa successe subito dopo ce lo racconta Ovidio nelle sue “Metamorfosi”, scrivendo che “Phaëton per caelum praecipitat et in Eridanum cadit ubi Naides Hespiriae in tumulo corpus condunt” (Fetonte precipita nel cielo e cade nell’Eridano, dove le Naiadi dell’Esperia ne seppelliscono il corpo in una tomba).
Il mito di Fetonte lo si ritrova anche nel capitolo III del Timeo di Platone, quando il vecchio Crizia racconta a Solone tale vicenda (ne riporto solo una parte nella traduzione dal greco di Francesco Acri), prima di addentrarsi nella descrizione dell’isola di Atlante: “Fetonte, figliuolo del Sole, una volta aggiogato i cavalli al carro del padre, e montatovi su, non sapendo carreggiare la strada, avere arso ogni cosa sopra la terra, morendo egli di folgore; questo a forma di favola; il vero poi è lo dichinamento degli astri che si rivolvono per lo cielo attorno alla terra, e lo incendimento di tutte le cose sopra la terra per molto fuoco. Piú allora periscono quelli che abitano in su le montagne e in alti luoghi aridi, che non quelli appresso al mare od ai fiumi; ma noi, il Nilo che bene è salvatore nelle altre distrette, campa ancora di questa, sciogliendosi dalle ripe e inondando. E allora che diluviano la terra gli Iddii, si salvano quelli di su le montagne, i bifolchi e i pastori; là dove gli abitatori delle vostre terre portati sono dai fiumi dentro del mare: ma in questa contrada né allora, né le altre volte, mai da su non ruina l’acqua nella campagna; per lo contrario, di giú levasi ella naturalmente, e sí allaga. E però si dice che serbate sono qua le memorie delle antichissime cose, da poi che sempre, alle volte piú e alle volte meno, è umana semenza in tutt’i luoghi de’ quali non la discaccino verni crudi o caldi distemperati. Per questo, ogni bella cosa grande o in qual si voglia modo notabile appresso voi intervenuta, o qua, o in altri luoghi, la quale noi avessimo conosciuto per fama, tutto registrato è infino dall’età antica e serbato qua nei templi. Ma i vostri avvenimenti, e quelli degli altri, sono ogni volta registrati di fresco nelle scritture e negli altri monumenti che a repubblica si convengono; e novamente a usati intervalli di anni, sí come un morbo, scoppia, ruinando su voi, la fiumana di cielo, e lascia di voi quelli selvaggi di muse: sicché tornate da capo come giovini, non sapendo nulla di tutti gli avvenimenti di qua, né di quelli presso di voi, che furono negli antichi tempi. Onde, o Solone, quello che hai narrato ora tu delle generazioni vostre, quasi differisce poco dalle novellette dei fanciulli; imperciocché voi non ricordate che uno solo diluvio della terra, là dove furono molti per lo passato; e cosí non avete pure nuove che vissuta sia nella vostra terra la piú bella e buona generazione di uomini che mai si vedesse, de’ quali siete usciti, tu e tutta la cittadinanza, del piccol seme salvato; e vi mancan le nuove per ciò che di quelli sopravvanzati molte generazioni finiron la vita loro muti di lettere. Un tempo, o Solone, avanti il paventosissimo scempio delle acque, la repubblica, la quale or si dice degli Ateniesi, era eccellentissima in arme, e in tutto governata a leggi bonissime; e si narrano di lei opere molto leggiadre e ordinanze bellissime sovra tutte quelle che il sol vide sotto il suo cielo, delle quali noi si abbia novelle”.
Tanto premesso, e per tornare al mito di Fetonte, se si considera che secondo la leggenda Helios, terminato il suo corso quotidiano, scendeva nel giardino delle Esperidi e vi lasciava i suoi cavalli a pascolare, e con loro riposava durante la notte, e che le Esperidi erano figlie di Forco, re mitologico di Sardegna e Corsica, perché non pensare che lo “spot” descritto da Platone e quindi da Ovidio fosse proprio la Sardegna?
Rimane però da comprendere che rapporto ci potesse essere tra la nostra isola e l’Eridano.
Un fiume che secondo Virgilio era ubicato in quegli “inferi” posti notoriamente nel lontano occidente e identificato a volte con il Po, a volte con il Rodano.
Ebbene, sulla costa orientale del Sarrabus, in prossimità della foce del Flumendosa, e in prossimità dell’antico scalo portuale di Sarcapos, esiste una piana denominata “Eringiana”. Sarà stato proprio il Flumendosa il mitico Eridano?
In allegato: La pianura Eringiana riportata sulla cartografia IGM.

Comune:
Prov:
Autore:
L’Isola che non c’è – 1

di Giorgio Valdès
Chiedo clemenza se nei precedenti, nell’attuale e nei prossimi post ho parlato e parlerò dell’antico Egitto e dei rapporti che intrattenne con l’area mediterranea e con la nostra isola in particolare.
Molti esimi studiosi sostengono la “realistica” ipotesi che la Sardegna avesse intessuto intensi e frequenti rapporti con la terra dei faraoni: uno per tutti il professor Giovanni Ugas che di questi contatti ha riferito copiosamente, specie in due sue interessantissime opere: “L’Alba dei Nuraghi” e il più recente “Shardana e Sardegna”, edite rispettivamente nel 2005 e nel 2016.
L’Egittologia è stata il mio primo amore, ed anche se è evidente come questa considerazione non possa interessare ad alcuno, è altrettanto vero che l’ultra millenaria cultura nilotica ha lasciato una miriade di tracce scritte in carattere geroglifico, ieratico e demotico oltre ad importanti raffigurazioni, alcune o molte delle quali possono avere attinenza con le vicende della nostra isola.
Questo straordinario patrimonio testimoniale ha avuto inizio, probabilmente, nel corso della cultura di Naqada II, di cui abbiamo riferito succintamente anche in un recente post (se ne parlerà comunque anche prossimamente), e si è protratto, incrementandosi, nei secoli successivi e, per quel che ci riguarda, nelle epoche coeve alla nostra civiltà nuragica.
E’ del tutto manifesto che in assenza di documentazione scritta proveniente dal nostro territorio, gli indizi documentali provenienti da altre aree mediterranee e dall’Egitto in modo particolare, costituiscano “merce preziosa” per tentare di comprendere chi siamo stati, da dove proveniamo e quale ruolo abbiamo assunto, in tempi remoti, nei rapporti con le altre popolazioni del mondo allora conosciuto.
Tanto premesso, traggo spunto da quanto riferito da Widmer Berni e Maria Longhena nel loro libro “Una nuova preistoria umana – Ipotesi inedite sull’origine della Civiltà” (Pendragon 2019), ma anche dal precedente ed altrettanto interessante volume, pubblicato da Widmer Berni ed Antonella Chiappelli nel 2008, titolato “Haou-Nebout – I Popoli del Mare”.
Opere, entrambe, corredate da svariati ed autorevoli riferimenti bibliografici e da “illuminanti” traduzioni dal geroglifico da parte di eminenti egittologi ed orientalisti e che coinvolgono, con ottima probabilità, le vicende che hanno interessato la nostra isola per un lungo periodo e comunque sino alla fine dell’Età del Bronzo, o come scrivono gli autori, sino al suo “collasso”.
In questo nuovo lavoro i protagonisti principali sono ancora gli “Haou-Nebout”; dizione, quest’ultima, già conosciuta in periodo predinastico e comunque già esistente nell’Antico regno (inizio del III millennio a.C.).
ed interpretata in diverse maniere, una delle quali può sintetizzarsi con: “ciò che sta a Nord o che circonda il Nebout”; dove il termine Nebout potrebbe significare “isole che galleggiano”.
Si tratta comunque di isole poste ai confini settentrionali del mondo, in mezzo al mare , il “Grande Verde” degli antichi egizi. A questo proposito il celebre egittologo francese Jean Vercoutter ( 1911 –2000) scriveva che “Nei Testi delle Piramidi, così come nei Testi dei Sarcofagi e nei libri funerari posteriori, esse (le isole Haou-Nebout) sono legate al grande fiume che percorre il mondo infernale…” Ciò consente di ipotizzare che tali isole fossero in realtà ubicate a nord ovest dell’Egitto, dove si pensava fosse collocato l’Ade. E a questo proposito va osservato come il rito funerario egizio esordisse con la formula: “a occidente”, e comprendesse un attraversamento delle acque per raggiungere il sacro Amenti, posto nell’isola ritenuta regno di Osiride, signore eterno dei “Sekhet Hnw//Yarw” (I “campi di hanw”, dizione che sorprende per la sua similitudine, sicuramente casuale, con la nostra pianura). Maggiori indizi possono comunque trarsi dalla lettura del seguente articolo:

Il Paradiso in premio agli amici di Nurnet


L’egittologa Alessandra Nibbi (1923–2007), nel suo “The Sea Peoples and Egypt” scriveva inoltre che “Il problema dell’identificazione degli “Haou-Nebout” è stato offuscato dalla tarda traduzione di questo termine come ‘Greci’, ma pur anche nella disponibilità ad un cambiamento nell’applicazione di questo termine in senso geografico, il problema è rimasto oscuro e senza speranza ad ogni livello”.
Per altro verso è risaputo che la tendenza pressoché generale è sempre stata quella di non considerare, con la dovuta attenzione e serenità, le isole che stanno nel mezzo del Mediterraneo occidentale, ed in primo luogo la più rappresentativa di esse: quella Sardegna che seppe esprimere una straordinaria ed antichissima civiltà, testimoniata dalle decine di migliaia di monumenti che costellano il suo territorio e dalla presenza (purtroppo spesso contestata), di quelle marinerie Shardana che unite alla confederazione dei Popoli del Mare, esercitarono nel Mediterraneo occidentale (come afferma il nostro archeologo Giovanni Ugas), “una leadership militare di lungo periodo, dal 1500 al 1200 e oltre avanti Cristo”.
Il disconoscimento del ruolo svolto dalla Sardegna nelle vicende del mondo allora conosciuto non può sorprendere, considerato lo scarso interesse storicamente riposto dagli “addetti ai lavori” nostrani nei confronti del “nuragico”, per decenni considerato espressione di una civiltà deteriore e di un popolo che solo la “colonizzazione” fenicia e le occupazioni degli invasori successivi avrebbero “acculturato”.
Dimenticarsi della Sardegna è un “vezzo” al quale non sfuggono neanche Berni e Longhena, autori del secondo libro citato all’inizio, non tanto perché essi vanno a ricercare gli “Haou-Nebout” nell’Oceano Atlantico ( non è detto che si tratti di un’ipotesi campata in aria, almeno per quanto si riferisce all’origine di questa etnia, argomento di cui si accennerà in un prossimo post), ma per non essersi mai interrogati sull’esistenza e sul reale ruolo svolto da una grande isola, nel cuore del Mediterraneo Occidentale, caratterizzata dal patrimonio monumentale probabilmente più vasto del mondo e “spot” dei più affascinanti miti e leggende.
Per tornare al termine “Haou-Nebout”, esso compare abbinato, in primo luogo, alla dizione egizia “Nove Archi”, spesso richiamata dagli autori di entrambi i libri.
Dal secondo dei quali riporto testualmente questo passo che ne illustra succintamente il significato: “ In ogni testo o iscrizione che canti le lodi del faraone, di cui l’Egitto è così copioso, è quasi di rigore che appaia l’augurio che il faraone tenga ai suoi piedi i “Nove Archi”. Sebbene molto frequentemente vengano interpretati come i popoli vinti o assoggettati all’Egitto, i “Nove Archi” sono in realtà le nove razze che rappresentano per gli Egizi l’intero genere umano.”
Vediamo allora quali erano questi popoli i cui nomi, da leggersi da destra a sinistra, sono inseriti nei cartigli geroglifici riportati nell’immagine allegata.
Nel primo cartiglio è riportata proprio la dizione “Haou-Nebout”, mentre negli altri a seguire (risparmio i termini egizi) sono rappresentati rispettivamente: Alta Nubia, Alto Egitto, Oasi, Basso Egitto, Deserto orientale, Libia, Nubia, Asia. Come scriveva Vercoutter nel suo “Les Haou-Nebout”, queste genti “Haou-Nebout” rappresentate in prima fila nei “Nove Archi”, “vennero dalle loro terre nelle isole che stanno in mezzo al Grande Verde”. Quindi perché scomodare l’Oceano Atlantico quando il “Grande Verde” era con ottima probabilità il Mediterraneo Occidentale. A parte notare che nei “Nove Archi” sono presenti diversi paesi nord africani e l’Asia (almeno quella parte di essa con la quale a quei tempi gli Egizi intrattenevano contatti di vario genere), mentre appare assolutamente paradossale l’esclusione delle isole del Mediterraneo occidentale, per “saltare” direttamente in Atlantico.
E questo a maggior ragione se si osserva come la Sardegna in particolare non sia “un’ochetta in mezzo al mare”, ma un’isola enorme che come attestato da svariate ricerche (tra cui quelle importantissime del professor Ugas) intrattenne intensi e lunghissimi rapporti con la terra d’Egitto.
Che poi l’origine più remota degli “Haou-Nebout” fosse nell’Oceano Atlantico è “un altro paio di maniche”, e come detto se ne accennerà prossimamente.
Vorrei concludere questo post (cui ne seguiranno alcuni altri, auspicando possano interessare chi li leggerà) con un altro brano, sempre tratto dal libro di Berni e Longhena, in cui si osserva che in Egitto si rispettava una regola da “applicarsi religiosamente”, che prevedeva una stretta corrispondenza tra le nove divinità dell’Enneade e le nove razze riprodotte nei “Nove Archi”.
“Secondo la stessa legge, poiché la funzione di generatore degli dei e dell’umanità era ricoperta da Ptah, primo dio dell’Enneade, un’analoga valenza doveva corrispondere al primo popolo o razza dei “Nove Archi”. E’ stupefacente che gli Egizi abbiano posto se stessi tradizionalmente al terzo e quinto posto (Alto e Basso Egitto) mentre è il misterioso “Haou-Nebout” a ricoprire questo ruolo fondamentale.
Quale ruolo avevano ricoperto gli “Haou-Nebout” nelle sfere ancestrali della conoscenza egizia e per quale similitudine e corrispondenza semantica li assimilavano a Ptah, padre degli dei e creatore del genere umano? Alla radice del genere umano l’”Haou-Nebout” sembrerebbe ricoprire un ruolo fondamentale.
E da questo luogo perduto alla nostra conoscenza che dunque sarebbero partite le migrazioni e le successive colonizzazioni determinando così il concetto di nove popoli da cui discenderanno tutte le genti? Questo e ciò che lascia supporre tale concezione egizia, già manifesta in tempi predinastici.”
Giusto per ipotizzare la collocazione di questo “luogo perduto”, mi permetto di riproporre un vecchio post che spero possa costituire motivo di seria riflessione (perdonate il mio sardo-centrismo).
https://m.facebook.com/NURNET2013/posts/2792233390855367
In allegato: la rappresentazione geroglifica dei “Nove Archi” con in testa gli “Haou-Nebout”.

Comune:
Prov:
Autore:
Tomba giganti di Fiorosu Ploaghe 2

L’impianto alquanto imponente: misura complessivamente m 22; l’esedra ha una lunghezza di corda di m 18 e rimangono quasi tutti i massi, piantati a coltello, alcuni molto alti. Il corridoio funebre è lungo m 16, alto m 1,30 e largo m 1,40; è coperto da lastroni orizzontali: uno di essi manca e permette di vedere l’interno della tomba, la cui sezione è rettangolare.

Tomba giganti di Fiorosu Ploaghe 1

L’impianto alquanto imponente: misura complessivamente m 22; l’esedra ha una lunghezza di corda di m 18 e rimangono quasi tutti i massi, piantati a coltello, alcuni molto alti. Il corridoio funebre è lungo m 16, alto m 1,30 e largo m 1,40; è coperto da lastroni orizzontali: uno di essi manca e permette di vedere l’interno della tomba, la cui sezione è rettangolare.