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Tomba di giganti Is Concias

Conosciuta anche come “Sa Domu ”e s”Orku”, é costituita da blocchi di granito locale ordinati secondo lo “stile ciclopico”. Presenta la particolarità unica di essere orientata esattamente verso il Nord. Questa Tomba dei giganti è del tipo con “facciata a filari”, tipica delle tombe dei giganti del Sud della Sardegna la facciata e l”esedra, ampia 10 m., sono costruite in muratura megalitica; nell”area sulla destra dell”esedra sono presenti tre “focolari rituali”, di forma circolare.

Tomba di giganti Is Concias

Conosciuta anche come “Sa Domu ”e s”Orku”, é costituita da blocchi di granito locale ordinati secondo lo “stile ciclopico”. Presenta la particolarità unica di essere orientata esattamente verso il Nord. Questa Tomba dei giganti è del tipo con “facciata a filari”, tipica delle tombe dei giganti del Sud della Sardegna la facciata e l”esedra, ampia 10 m., sono costruite in muratura megalitica; nell”area sulla destra dell”esedra sono presenti tre “focolari rituali”, di forma circolare.

Tomba di Giganti Is Concias

Conosciuta anche come “Sa Domu ”e s”Orku”, é costituita da blocchi di granito locale ordinati secondo lo “stile ciclopico”. Presenta la particolarità unica di essere orientata esattamente verso il Nord. Questa Tomba dei giganti è del tipo con “facciata a filari”, tipica delle tombe dei giganti del Sud della Sardegna la facciata e l”esedra, ampia 10 m., sono costruite in muratura megalitica; nell”area sulla destra dell”esedra sono presenti tre “focolari rituali”, di forma circolare.

Betili di Tamuli

Il complesso nuragico di Tamùli è un importante sito archeologico risalente all’età del Bronzo medio (1500-1200 a.C.). Il sito era ben noto già nella prima metà dell”Ottocento grazie soprattutto alla descrizione che lo studioso gen. Alberto Della Marmora fece nel suo Voyage en Sardaigne, pubblicato nel 1840. Nell”atlante allegato illustrò compiutamente con numerosi disegni il nuraghe, due delle tre tombe dei giganti presenti, i betili ed alcuni conci presenti sul posto

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Codice Geo: NUR3750
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Betili di Tamuli

Il complesso nuragico di Tamùli è un importante sito archeologico risalente all’età del Bronzo medio (1500-1200 a.C.). Il sito era ben noto già nella prima metà dell”Ottocento grazie soprattutto alla descrizione che lo studioso gen. Alberto Della Marmora fece nel suo Voyage en Sardaigne, pubblicato nel 1840. Nell”atlante allegato illustrò compiutamente con numerosi disegni il nuraghe, due delle tre tombe dei giganti presenti, i betili ed alcuni conci presenti sul posto

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Betili di Tamuli

Il complesso nuragico di Tamùli è un importante sito archeologico risalente all’età del Bronzo medio (1500-1200 a.C.). Il sito era ben noto già nella prima metà dell”Ottocento grazie soprattutto alla descrizione che lo studioso gen. Alberto Della Marmora fece nel suo Voyage en Sardaigne, pubblicato nel 1840. Nell”atlante allegato illustrò compiutamente con numerosi disegni il nuraghe, due delle tre tombe dei giganti presenti, i betili ed alcuni conci presenti sul posto

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Codice Geo: NUR3750
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Betili di Tamuli

Il complesso nuragico di Tamùli è un importante sito archeologico risalente all’età del Bronzo medio (1500-1200 a.C.). Il sito era ben noto già nella prima metà dell”Ottocento grazie soprattutto alla descrizione che lo studioso gen. Alberto Della Marmora fece nel suo Voyage en Sardaigne, pubblicato nel 1840. Nell”atlante allegato illustrò compiutamente con numerosi disegni il nuraghe, due delle tre tombe dei giganti presenti, i betili ed alcuni conci presenti sul posto

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Codice Geo: NUR3750
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Betili di Tamuli

Il complesso nuragico di Tamùli è un importante sito archeologico risalente all’età del Bronzo medio (1500-1200 a.C.). Il sito era ben noto già nella prima metà dell”Ottocento grazie soprattutto alla descrizione che lo studioso gen. Alberto Della Marmora fece nel suo Voyage en Sardaigne, pubblicato nel 1840. Nell”atlante allegato illustrò compiutamente con numerosi disegni il nuraghe, due delle tre tombe dei giganti presenti, i betili ed alcuni conci presenti sul posto

L’Isola che non c’è – 2

di Giorgio Valdès
Il precedente articolo, di titolo analogo, si concludeva con il rimando ad un allegato nel quale erano rappresentati i “Nove Archi”, cioè i nove paesi o razze che per l’Egitto rappresentavano l’intero genere umano, in cima ai quali erano effigiati, nel relativo cartiglio, i misteriosi “Haou-Nebout”.
Il collasso dell’Era del Bronzo coincide anche, come osservato nel libro di Berni e Longhena “Una Nuova Preistoria Umana –Ipotesi inedite sull’origine della Civiltà”, con “una migrazione non di tribù, ma di nove popoli” che va ricercata, come testimoniano gli Egizi, “in importanti mutazioni climatiche planetarie, ed è questo il quadro che viene a dipingersi osservando la scena del mondo mediterraneo al tempo di Meneptah (1213-1202 a.C.), succeduto a Ramesse II, che procede di poco il sopraggiungere della prima ondata di invasione”.
Per maggior chiarezza, ciò che sostengono Berni e Longhena è che la migrazione dei Popoli del Mare è stata “una diretta conseguenza dell’immane disastro naturale che proprio nelle Isole del Grande Verde sembrerebbe aver avuto il suo drammatico epicentro”.
C’è un po’ di incertezza, nello stesso libro, quando si tratta di allocare le isole poste al centro del “Grande Verde” e a questo proposito viene richiamato un brano del celebre egittologo Jean Vercoutter il quale affermava che << i testi ramessidi …fanno delle ”isole che sono in mezzo al mare” località d’origine dei “Popoli del Mare”…paese situato all’estremo nord del mondo e …habitat difficile da determinare>>. L’impressione personale è che, come sempre, si tenda a banalizzare o sminuire l’ipotesi che questi luoghi fossero o comprendessero la Sardegna e le altre isole del Mediterraneo occidentale e ad annacquare la dizione “Grande Verde”, spostandone timidamente la collocazione nell’Oceano Atlantico.
Tuttavia, a questo proposito, occorre richiamare gli studi dettagliati del professor Giovanni Ugas, che ricorrendo a numerosi e puntuali riferimenti bibliografici, definisce come “isole nel Grande Verde” “un complesso di terre insulari o comunque rivierasche mediterranee del lontano Occidente di cui facevano parte innanzitutto la Sardegna con la Corsica e la Sicilia”(Giovanni Ugas: “Shardana e Sardegna”). Va da sé che il “Grande Verde” non poteva che essere il Mediterraneo occidentale.
Quale cataclisma può essere quindi avvenuto intorno al 1200 a.C.?
Secondo Berni e Longhena “recenti studi di archeosismologia affermano che l’Egeo, la Grecia e gran Parte del Mediterraneo Orientale avevano sofferto di terremoti seriali (earthquake storm) che iniziarono verso il 1220 a.C. e durarono per circa cinquant’anni sino al 1170 a.C.” colpendo diversi paesi tra cui Micene, Tirinto, Pilo, Troia, Hattusas, Ugarit, Megiddo ed Enkomi a Cipro.
Al proposito richiamano gli studi di K.Kilian, archeologo orientalista ed esperto in studi micenei, il quale riferiva che “Le grandi catastrofi, certo almeno quelle di Pilo, Menelaion, Micene, Tirinto, Midea, Proph, Elias e Troia, sono dovute ad un evento naturale e non a un diretto intervento umano…”
Ma anche Itamar Singer, dell’Università di Tel Aviv, riteneva “che la fine del XIII secolo e l’inizio del XII fossero stati colpiti da un disastro senza precedenti e che la fame avesse afflitto un territorio estremamente vasto”.
Inoltre, le ricerche condotte sui pollini dalle Università francese di Tolosa e dalla Yale University “hanno portato ad un identico risultato: la fine dell’Età del Bronzo coincide con una siccità che durò 300 anni. Un cambiamento climatico eccezionale di cui non conosciamo la causa, almeno al momento determinò una grande carestia che obbligò un gran numero di individui a cercare sostentamento altrove” (Berni e Longhena: “Una Nuova Preistoria Umana –Ipotesi inedite sull’origine della Civiltà”).
Un evento naturale distruttivo e due invasioni dei Popoli del Mare nell’arco di 30 anni si possono quindi ragionevolmente collegare al “collasso” dell’Età del Bronzo.
Gli autori del libro citano quindi il racconto biblico delle piaghe d’Egitto inviate da Mosè, per richiamare un recente studio americano, quindi trasfuso in un documentario televisivo, dove “le sette piaghe sono interpretabili come eventi concatenati che originarono da un’unica causa innescante: uno sconvolgimento che portò il mare a penetrare profondamente lungo il corso del Nilo tanto da cambiarne il senso della corrente”.
Cosa può spingere il corso di un fiume come il Nilo ad invertire il senso della sua corrente? Probabilmente un’onda o più onde gigantesche causate da qualcosa di terribile ed inaspettato, probabilmente, come scrivono gli autori “Un corpo celeste che in rotta di collisione terrestre sia precipitato in mare potrebbe ovviamente spiegare sia la pioggia di fuoco che l’onda anomala marina causa dell’inversione della corrente del Nilo.”
Occorre tuttavia andare oltre ed esaminare le testimonianze scritte dell’epoca, ma anche interpretare senza pregiudizi le leggende che le accompagnano, per comprendere se e quanto ci sia di vero o verosimile in questa immane catastrofe, forse originata dalla caduta in mare di un corpo celeste, che a sua volta determinò uno spaventoso tsunami e il successivo esodo di tanti popoli.
In un prossimo post si vedrà di riportare queste testimonianze, per lo più citate nel libro di Berni e Longhena, ma prima di farlo conto a breve di riproporre un post intrigante sulla caduta di Fetonte nel fiume Eridano perché, come accennato…i miti non vanno mai derisi o banalizzati, ma interpretati.

In allegato: dettaglio della battaglia di Ramesse III contro i Popoli del Mare su una parete del tempio di Medinet Habu

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L’Isola che non c’è – 6

di Giorgio Valdès
Questo post conclude, almeno per ora, le considerazioni riportate nei 5 precedenti articoli, pubblicati con lo stesso titolo ma con numeri d’ordine crescenti.
Voglio in primo luogo citare Widmer Berni e Maria Longhena, autori del bel libro: “Una nuova preistoria umana – Ipotesi inedite sull’origine della Civiltà” (2019) ma anche lo stesso Berni per aver scritto con Antonella Chiappelli, 12 anni fa :“Haou-Nebout – I Popoli del Mare”: opera altrettanto interessante, da cui sono state attinti diversi brani compresi nel libro più recente.
Da questi libri e dall’ultimo in particolare, ho tratto gran parte delle notizie e delle testimonianze riportate in questo e nei precedenti post e sono innanzitutto grato agli autori per aver inserito nel sotto titolo il termine “ipotesi”, che denota un’onestà intellettuale che si contrappone alla supponenza di coloro, e sono tanti, che spacciano semplici supposizioni per verità assolute.
Ovviamente la mia gratitudine è motivata soprattutto dalla gran quantità di informazioni e testimonianze, provenienti soprattutto dalla bibliografia e iconografia egizia, con le relative traduzioni compiute da esimi archeologi ed egittologi.
Le considerazioni contenute nei due libri sono a mio giudizio per gran parte condivisibili, mentre su altre non concordo, del tutto o solo parzialmente.
Una di queste, in particolare, mi lascia molto perplesso e serve da stimolo per una serena riflessione.
Innanzitutto viene riportata questa frase di Gardiner: “Proprio agli inizi del regno (Ramesse II, circa 1275 a.C. – mia nota) e per la prima volta in testi egizi, troviamo un accenno agli Sherden, pirati che più tardi diedero il nome alla Sardegna, ma che in quell’epoca è probabile abitassero in tutt’altra parte del Mediterraneo”.
Evito di commentare queste considerazioni, su cui certamente non concorderà il professor Ugas che presumo dissentirà anche su un successivo commento degli autori del libro, dove si legge: “Erano audaci guerrieri Haou-Nebout del Grande Verde coloro che si stabilirono in Sardegna sovrapponendosi alla civiltà nuragica che da secoli popolava l’isola”.
Tenuto conto che secondo Widmer Berni questi invasori provenivano dall’Oceano Atlantico , mi sentirei di affermare che la loro “sovrapposizione” alla civiltà nuragica si tirava dietro anche ad una sfiga colossale.
Se difatti, come riferito nei precedenti post, all’inizio del XII secolo a.C. era avvenuto un cataclisma immane che aveva coinvolto l’intero Mediterraneo, questi “Haou-Nebout” atlantici non avevano fatto nemmeno in tempo ad occupare l’isola, che già dovevano abbandonarla cercando rifugio altrove.
Per intenderci, non mi scandalizza l’idea che questa etnia provenisse direttamente dall’Atlantico, ma “non torna” assolutamente il periodo del suo presunto arrivo in Sardegna.
A questo proposito è risaputo che dal Neolitico medio (cultura di Bonoighinu 4000-3400 a.C. circa), la conformazione cranica dei sardi era prevalentemente “dolicocefala” e rimase così sino a molto tempo più tardi, quando nel corso dell’eneolitico si fuse con nuovi individui “brachicefali”.
Teniamo anche conto che la conformazione dolicocefala la ritroviamo anche in Egitto e a questo proposito la ricercatrice Anna Bacchi, osservava che “negli anni Trenta del secolo scorso, l’egittologo Walter Bryan Emery scoprì a Saqqara resti di individui predinastici dolicocefali con chiome chiare, corporatura massiccia e molto più alti delle genti locali, che associò agli Shemsw Hor”.
Scusate se mi dilungo, ma questo è un passaggio importante perché come scriveva Sir E.A. Wallis Budge, insigne egittologo, filologo e orientalista inglese (1857-1934) questi Shamsw Hor o Horo Harakhty, (i compagni di Horus) facevano parte “di una razza (o cultura) venuta dall’Occidente a cui si deve “ la formazione delle prime dinastie egizie”.
Formazione che avvenne presumibilmente nel corso della cultura di Naqada II, che si sviluppò in un periodo compreso tra il 3650 e il 3300 a.C.
Va quindi osservata, in primo luogo, l’analogia della conformazione crenica dei sardi neolitici e di coloro che giunti da occidente in Egitto, si pensa avessero fondato, nello stesso periodo, le proto dinastie faraoniche.
Dalle tombe di Ieraconpolis di Naqada II proviene, come scrivono Berni e Longhena, “Copiosa ceramica, un eccezionale affresco tombale, numerosi graffiti ed altri manufatti che propongono un’iconografia indiscutibilmente legata alla navigazione”.
In particolare è stata rinvenuta la raffigurazione di “un’imbarcazione completa di albero e vele ed un affresco datato 3500-3200 a.C. che rappresenta addirittura un’intera flotta”. Di questo affresco avevamo già riferito in diversi e precedenti post, ma allo stato attuale è importante sottolineare come Berni e Longhena siano convinti che le barche di questa flotta rappresentassero le navi oceaniche degli Haou-Nebout atlantici, giunti in Egitto per dare appunto origine alle protodinastie.
Nello stesso dipinto si individuano anche alcuni individui dolicocefali e con capigliatura bionda (per intenderci la stessa tipologia rinvenuta in Egitto a Saqqara e in Sardegna nel neolitico medio).
Si sta comunque parlando di quegli Haou-Nebout atlantici che secondo gli autori del libro ripetutamente citato, più di duemila anni più tardi si sarebbero stabiliti in Sardegna “sovrapponendosi alla civiltà nuragica che da secoli popolava l’isola”.
Ma c’è qualcosa che non quadra perché, come avevamo affermato tempo fa, all’interno della così detta “tomba delle corna”, nella necropoli di Montessu a Villaperuccio, sono presenti dei petroglifi che sembrano riprodurre proprio le barche effigiate nella pittura di Ieraconpolis, e in particolare l’imbarcazione nera.
Entrambe presentano un’alta prua ricurva e al centro dello scafo un doppio “naos”.
La similitudine (cfr.allegato) appare più che evidente mentre è poco credibile che il petroglifo di Montessu possa assimilarsi ad una protome taurina, salvo si trattasse di un bovide anatomicamente deficitario, con cranio bitorzoluto e corna decisamente asimmetriche.
Non si può affermare con certezza se la raffigurazione di Ieraraconpolis sia precedente, coeva o seguente a quella presente nella sepoltura di Montessu, che può datarsi intorno al 3200 a.C.
C’è però da osservare che secondo la professoressa Mariagrazia Celuzza, direttrice del Museo Archeologico e d’Arte della Maremma e docente di Museologia e Museografia alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena, era manifesta l’esigenza di rivedere il quadro cronologico della preistoria, apportando delle correzioni variabili a seconda dei periodi pur mantenendo valide quelle dell’area egea e nilotica che presentavano date certe.
La professoressa Celuzza sosteneva in particolare che “in alcuni casi la correzione necessaria è molto alta: alle date intorno al 3000 a.C. ad esempio bisogna aggiungere 7-800 anni”.
Ciò significa che anche a voler essere prudenti e a voler retrocedere solo di qualche centinaio d’anni l’edificazione delle domus de janas di Montessu, la “ formazione delle prime dinastie egizie” venne effettuata dagli stessi navigatori Haou-Nebout probabilmente provenienti dall’Atlantico, dopo essersi insediati in Sardegna intorno al 3500 a.C. o anche prima.
Si potrebbero anche esaminare altre alternative: che gli Haou Nebout avessero fatto una “toccata e fuga” in Sardegna prima di giungere in Egitto e qualche bravo scultore avesse voluto incidere sulla pietra il profilo delle navi dei nuovi venuti; che siano stati gli antichi sardi, già avvezzi alla navigazione, visto che commercializzavano per mare l’ossidiana già nel V o Vi millennio a.C., ad acquisire le tecniche dei nuovi venuti per recarsi in Egitto, nel periodo di Naqada II, e fondare quindi le protodinastie.
Personalmente propenderei per la seconda ipotesi ma, in un modo o nell’altro, che gli Haou-Nebout siano giunti in Sardegna in periodo nuragico mi pare un’ipotesi assolutamente campata in aria.
Se quindi gli stessi Haou Nebout , che formarono le prime dinastie egizie e che, per rispetto venivano effigiati come i primi dei “Nove Archi” fossero giunti dalla Sardegna, tutto ciò che è stato scritto in questi 6 post ne è la conseguenza logica e molte tessere della storia di quei tempi remoti ritornano al loro posto.
Vorrei proporre un’ultima osservazione: Il ricercatore Paolo Baratono afferma che “Nei primi testi egizi, i celebri Testi delle Piramidi, emerge ossessivamente la menzione dell’Orizzonte dell’Occidente” .
A questo proposito lo stesso Baratono evidenzia un passo assai significativo, presente in quei remoti testi , quando il dio supremo afferma: “io ho fatto grande l’inondazione, io ho fatto che i loro cuori cessassero di dimenticare l’occidente”: esplicita dichiarazione della realtà del disastro “atlantideo”.
Difficile pensare che questo continuo richiamo a una lontana terra insulare fosse un semplice frutto della fantasia, mentre è più ragionevole pensare che si alludesse a un luogo reale situato a Ovest.
Questo punto cardinale, per dirla con la celebre egittologa Betrò “era la regione dove i morti erano seppelliti per rinascere e raggiungere la vita eterna e i testi egiziani lo chiamano il bell’Occidente”.
Per concludere, se la catastrofe dovuta all’impatto sul Mediterraneo di un corpo celeste – che aveva causato la grande inondazione di cui si è riferito nei precedenti post di questa serie-, è effettivamente avvenuta, è anche altrettanto probabile che l’isola sacra posta nel mare del tramonto, -dove il carro del sole terminava ogni giorno il suo percorso lungo la volta liquida del cielo- fosse effettivamente esistita.
Mi permetto allora di proporre la candidatura della Sardegna, a costo di apparire ancora una volta sardocentrico.
In allegato: I particolari della barca nera tratto dalla pittura parietale di Ieraconpolis (Naqada II) e del petroglifo inciso all’interno della “Tomba delle corna” di Montessu a Villaperuccio.

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L’Isola che non c’è – 3

di Giorgio Valdès
Ripropongo alcune vecchie considerazioni sul mito di Fetonte (Ovidio “Le Metamorfosi”), rammentando comunque, e per l’ennesima volta, quanto affermato dal celebre archeologo belga naturalizzato italiano Louis Godart: “le vecchie leggende affondano le loro radici nella Storia ed è certo che alla base di qualunque mito narrato dagli Antichi vi è una verità storica che la critica moderna deve tentare di ritrovare e di spiegare ”.
In un post che conto di presentare a breve su questa pagina, vedrò di spiegare più dettagliatamente perché ho voluto richiamare in sintesi questo avvenimento mitologico, la cui traduzione completa riporto nel link http://www.miti3000.it/mito/biblio/ovidio/metamorfosi/secondo.htm consigliandone la lettura, poiché
le descrizioni apparentemente fantasiose di Ovidio potrebbero ragionevolmente celare fatti reali di cui, come detto, conto di riferire prossimamente.
Fetonte, figlio del dio solare Helios, un giorno ottenne dal padre il permesso di guidare i “cavalli del sole” lungo la volta celeste.
Tuttavia ne perse il controllo ed essi, imbizzarriti e galoppando all’impazzata combinarono un disastro epocale, incendiando e facendo tremare le terre che si affacciavano sul Mediterraneo, prosciugando l’acqua dei fiumi, spegnendo le foci del Nilo e facendo ritrarre i mari.
Al che Zeus, furibondo, lo abbatté con un fulmine. Cosa successe subito dopo ce lo racconta Ovidio nelle sue “Metamorfosi”, scrivendo che “Phaëton per caelum praecipitat et in Eridanum cadit ubi Naides Hespiriae in tumulo corpus condunt” (Fetonte precipita nel cielo e cade nell’Eridano, dove le Naiadi dell’Esperia ne seppelliscono il corpo in una tomba).
Il mito di Fetonte lo si ritrova anche nel capitolo III del Timeo di Platone, quando il vecchio Crizia racconta a Solone tale vicenda (ne riporto solo una parte nella traduzione dal greco di Francesco Acri), prima di addentrarsi nella descrizione dell’isola di Atlante: “Fetonte, figliuolo del Sole, una volta aggiogato i cavalli al carro del padre, e montatovi su, non sapendo carreggiare la strada, avere arso ogni cosa sopra la terra, morendo egli di folgore; questo a forma di favola; il vero poi è lo dichinamento degli astri che si rivolvono per lo cielo attorno alla terra, e lo incendimento di tutte le cose sopra la terra per molto fuoco. Piú allora periscono quelli che abitano in su le montagne e in alti luoghi aridi, che non quelli appresso al mare od ai fiumi; ma noi, il Nilo che bene è salvatore nelle altre distrette, campa ancora di questa, sciogliendosi dalle ripe e inondando. E allora che diluviano la terra gli Iddii, si salvano quelli di su le montagne, i bifolchi e i pastori; là dove gli abitatori delle vostre terre portati sono dai fiumi dentro del mare: ma in questa contrada né allora, né le altre volte, mai da su non ruina l’acqua nella campagna; per lo contrario, di giú levasi ella naturalmente, e sí allaga. E però si dice che serbate sono qua le memorie delle antichissime cose, da poi che sempre, alle volte piú e alle volte meno, è umana semenza in tutt’i luoghi de’ quali non la discaccino verni crudi o caldi distemperati. Per questo, ogni bella cosa grande o in qual si voglia modo notabile appresso voi intervenuta, o qua, o in altri luoghi, la quale noi avessimo conosciuto per fama, tutto registrato è infino dall’età antica e serbato qua nei templi. Ma i vostri avvenimenti, e quelli degli altri, sono ogni volta registrati di fresco nelle scritture e negli altri monumenti che a repubblica si convengono; e novamente a usati intervalli di anni, sí come un morbo, scoppia, ruinando su voi, la fiumana di cielo, e lascia di voi quelli selvaggi di muse: sicché tornate da capo come giovini, non sapendo nulla di tutti gli avvenimenti di qua, né di quelli presso di voi, che furono negli antichi tempi. Onde, o Solone, quello che hai narrato ora tu delle generazioni vostre, quasi differisce poco dalle novellette dei fanciulli; imperciocché voi non ricordate che uno solo diluvio della terra, là dove furono molti per lo passato; e cosí non avete pure nuove che vissuta sia nella vostra terra la piú bella e buona generazione di uomini che mai si vedesse, de’ quali siete usciti, tu e tutta la cittadinanza, del piccol seme salvato; e vi mancan le nuove per ciò che di quelli sopravvanzati molte generazioni finiron la vita loro muti di lettere. Un tempo, o Solone, avanti il paventosissimo scempio delle acque, la repubblica, la quale or si dice degli Ateniesi, era eccellentissima in arme, e in tutto governata a leggi bonissime; e si narrano di lei opere molto leggiadre e ordinanze bellissime sovra tutte quelle che il sol vide sotto il suo cielo, delle quali noi si abbia novelle”.
Tanto premesso, e per tornare al mito di Fetonte, se si considera che secondo la leggenda Helios, terminato il suo corso quotidiano, scendeva nel giardino delle Esperidi e vi lasciava i suoi cavalli a pascolare, e con loro riposava durante la notte, e che le Esperidi erano figlie di Forco, re mitologico di Sardegna e Corsica, perché non pensare che lo “spot” descritto da Platone e quindi da Ovidio fosse proprio la Sardegna?
Rimane però da comprendere che rapporto ci potesse essere tra la nostra isola e l’Eridano.
Un fiume che secondo Virgilio era ubicato in quegli “inferi” posti notoriamente nel lontano occidente e identificato a volte con il Po, a volte con il Rodano.
Ebbene, sulla costa orientale del Sarrabus, in prossimità della foce del Flumendosa, e in prossimità dell’antico scalo portuale di Sarcapos, esiste una piana denominata “Eringiana”. Sarà stato proprio il Flumendosa il mitico Eridano?
In allegato: La pianura Eringiana riportata sulla cartografia IGM.

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L’Isola che non c’è – 2

di Giorgio Valdès
Il precedente articolo, di titolo analogo, si concludeva con il rimando ad un allegato nel quale erano rappresentati i “Nove Archi”, cioè i nove paesi o razze che per l’Egitto rappresentavano l’intero genere umano, in cima ai quali erano effigiati, nel relativo cartiglio, i misteriosi “Haou-Nebout”.
Il collasso dell’Era del Bronzo coincide anche, come osservato nel libro di Berni e Longhena “Una Nuova Preistoria Umana –Ipotesi inedite sull’origine della Civiltà”, con “una migrazione non di tribù, ma di nove popoli” che va ricercata, come testimoniano gli Egizi, “in importanti mutazioni climatiche planetarie, ed è questo il quadro che viene a dipingersi osservando la scena del mondo mediterraneo al tempo di Meneptah (1213-1202 a.C.), succeduto a Ramesse II, che procede di poco il sopraggiungere della prima ondata di invasione”.
Per maggior chiarezza, ciò che sostengono Berni e Longhena è che la migrazione dei Popoli del Mare è stata “una diretta conseguenza dell’immane disastro naturale che proprio nelle Isole del Grande Verde sembrerebbe aver avuto il suo drammatico epicentro”.
C’è un po’ di incertezza, nello stesso libro, quando si tratta di allocare le isole poste al centro del “Grande Verde” e a questo proposito viene richiamato un brano del celebre egittologo Jean Vercoutter il quale affermava che << i testi ramessidi …fanno delle ”isole che sono in mezzo al mare” località d’origine dei “Popoli del Mare”…paese situato all’estremo nord del mondo e …habitat difficile da determinare>>. L’impressione personale è che, come sempre, si tenda a banalizzare o sminuire l’ipotesi che questi luoghi fossero o comprendessero la Sardegna e le altre isole del Mediterraneo occidentale e ad annacquare la dizione “Grande Verde”, spostandone timidamente la collocazione nell’Oceano Atlantico.
Tuttavia, a questo proposito, occorre richiamare gli studi dettagliati del professor Giovanni Ugas, che ricorrendo a numerosi e puntuali riferimenti bibliografici, definisce come “isole nel Grande Verde” “un complesso di terre insulari o comunque rivierasche mediterranee del lontano Occidente di cui facevano parte innanzitutto la Sardegna con la Corsica e la Sicilia”(Giovanni Ugas: “Shardana e Sardegna”). Va da sé che il “Grande Verde” non poteva che essere il Mediterraneo occidentale.
Quale cataclisma può essere quindi avvenuto intorno al 1200 a.C.?
Secondo Berni e Longhena “recenti studi di archeosismologia affermano che l’Egeo, la Grecia e gran Parte del Mediterraneo Orientale avevano sofferto di terremoti seriali (earthquake storm) che iniziarono verso il 1220 a.C. e durarono per circa cinquant’anni sino al 1170 a.C.” colpendo diversi paesi tra cui Micene, Tirinto, Pilo, Troia, Hattusas, Ugarit, Megiddo ed Enkomi a Cipro.
Al proposito richiamano gli studi di K.Kilian, archeologo orientalista ed esperto in studi micenei, il quale riferiva che “Le grandi catastrofi, certo almeno quelle di Pilo, Menelaion, Micene, Tirinto, Midea, Proph, Elias e Troia, sono dovute ad un evento naturale e non a un diretto intervento umano…”
Ma anche Itamar Singer, dell’Università di Tel Aviv, riteneva “che la fine del XIII secolo e l’inizio del XII fossero stati colpiti da un disastro senza precedenti e che la fame avesse afflitto un territorio estremamente vasto”.
Inoltre, le ricerche condotte sui pollini dalle Università francese di Tolosa e dalla Yale University “hanno portato ad un identico risultato: la fine dell’Età del Bronzo coincide con una siccità che durò 300 anni. Un cambiamento climatico eccezionale di cui non conosciamo la causa, almeno al momento determinò una grande carestia che obbligò un gran numero di individui a cercare sostentamento altrove” (Berni e Longhena: “Una Nuova Preistoria Umana –Ipotesi inedite sull’origine della Civiltà”).
Un evento naturale distruttivo e due invasioni dei Popoli del Mare nell’arco di 30 anni si possono quindi ragionevolmente collegare al “collasso” dell’Età del Bronzo.
Gli autori del libro citano quindi il racconto biblico delle piaghe d’Egitto inviate da Mosè, per richiamare un recente studio americano, quindi trasfuso in un documentario televisivo, dove “le sette piaghe sono interpretabili come eventi concatenati che originarono da un’unica causa innescante: uno sconvolgimento che portò il mare a penetrare profondamente lungo il corso del Nilo tanto da cambiarne il senso della corrente”.
Cosa può spingere il corso di un fiume come il Nilo ad invertire il senso della sua corrente? Probabilmente un’onda o più onde gigantesche causate da qualcosa di terribile ed inaspettato, probabilmente, come scrivono gli autori “Un corpo celeste che in rotta di collisione terrestre sia precipitato in mare potrebbe ovviamente spiegare sia la pioggia di fuoco che l’onda anomala marina causa dell’inversione della corrente del Nilo.”
Occorre tuttavia andare oltre ed esaminare le testimonianze scritte dell’epoca, ma anche interpretare senza pregiudizi le leggende che le accompagnano, per comprendere se e quanto ci sia di vero o verosimile in questa immane catastrofe, forse originata dalla caduta in mare di un corpo celeste, che a sua volta determinò uno spaventoso tsunami e il successivo esodo di tanti popoli.
In un prossimo post si vedrà di riportare queste testimonianze, per lo più citate nel libro di Berni e Longhena, ma prima di farlo conto a breve di riproporre un post intrigante sulla caduta di Fetonte nel fiume Eridano perché, come accennato…i miti non vanno mai derisi o banalizzati, ma interpretati.

In allegato: dettaglio della battaglia di Ramesse III contro i Popoli del Mare su una parete del tempio di Medinet Habu

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